16 Gen 2014

Psicoterapia

Spazializzazione delle relazioni tra il troppo pieno e il quasi vuoto

Antefatto

Siamo in un outlet del nord Italia. Alacri acquirenti concentrati nel valutare la merce, scavano negli scaffali, laboriosamente intenti a grufolare tutto quello che gli stores espongono: confrontano colori, identificano le taglie, si accertano dell’integrità del capo selezionato, esultano dinanzi al manifestarsi di un’imperdibile occasione. Uno sciame di consumatori si muove attonito nell’inafferrabile turbinio di colori, così pastosamente sensuali per via del mosaicismo di pieghettature e consistenze che assumono le stoffe.

Il termine americano outlet, italianizzato in multispaccio, da qualche anno sembra essere la nuova moschea dell’acquisto, riassumendo nel suo perimetro e nella sua formula imprenditoriale una congerie di caratteristiche che sembrano profilare la nuova frontiera dell’acquisto: smisurata offerta di prodotti firmati da nomi prestigiosi, vantaggioso rapporto qualità prezzo, una struttura architettonica d’avanguardia, iper-attrezzata con piazzette per sostare, scambiarsi curiosità e consigli sulla merce, bar, ristoranti, sgargianti ludoteche per mamme dinamiche ma inseparabili dai loro bambini. Gli outlet seguono il vincente modello della “macchina per abitare”, che si compone di spazi ergonomici efficienti e con un altissimo livello di comodità tecnologica. Il tutto avvolto e confezionato da un’atmosfera eccitante e vorticosa tra luci, suoni e colori smossi principalmente dallo sguardo famelico dei clienti.

Così descritto, l’outlet sarebbe l’apostrofo multicolore tra le parole vestito e godimento, l’ennesimo paese dei balocchi in cui il comportamento d’acquisto ha la possibilità di estrinsecarsi seguendo i nuovi diktat della modernità liquida (Bauman, 2008).

Supponiamo che un cliente, ronzando tra gli scaffali del nostro outlet, adocchi, in un angolo, un prodotto che sembra particolarmente accattivante. Si dirige verso il ripiano designato con aria ghiotta e decisa. Immediatamente, la traiettoria identificata dal cliente viene percepita dagli altri presenti nel reparto. Il percorso che sta per essere battuto trasuda odore di affare. Rapidamente, l’incuriosito gruppo di acquirenti, abbandona l’ispezione del capo d’abbigliamento che stava osservando e si muove, proprio come potrebbe fare uno sciame1, nella direzione identificata dal primo cliente. Lo supera e si tuffa sulla merce con la stessa meraviglia che accompagnò lo scoperchiare il vaso di Pandora, e forse anche con gli stessi esiti2.

NOTE:

1 Il termine sciame non è usato come pura affabulazione linguistica ma (si vedrà meglio più avanti) come espressione di uno stato mentale che organizza una specifica dinamica relazionale.

2 Il mito di Pandora è sequenziale al mito di Prometeo il quale, rubando il fuoco agli dei per restituirlo agli uomini, fece infuriare il padre degli dei Zeus. Secondo il racconto di Esiodo, Zeus ordinò a Efesto (Vulcano, dio del fuoco e fabbro degli dei) di forgiare una bellissima figura femminile: Pandora, dicendo: “essi (gli uomini) riceveranno da me, in cambio del fuoco, un male di cui gioiranno, circondando d’amore ciò che costituirà la loro disgrazia”.
Gli dei dell’Olimpo donarono a Pandora ogni sorta di pregio e di virtù, da cui il nome che significa “tutta un dono”.
Ma il dio Mercurio le donò la curiosità e Zeus un vaso da custodire, ma con il divieto di aprirlo.
Pandora però, spinta dalla curiosità lo aprì e dal vaso uscirono tutti i mali: la vecchiaia, la morte, la malattia, la pazzia, solo per ultima uscì la speranza. Forse non tutti sanno che il termine sanscrito che traduce “speranza”, ha in realtà un senso negativo che lo avvicina più all’italiano “aspettativa” che non a “speranza”; per questo la “speranza” rimasta sul fondo del vaso di Pandora è forse il più terribile dei beni o il più dolce dei mali.

Epistemologia del contesto: luoghi disidentitari

Come potremmo leggere questa dinamica da un punto di vista psicologico? Quali scaturigini interne e quali conseguenze implica un simile comportamento d’acquisto?

Quali nuovi mondi relazionali stiamo costruendo?

A ben guardare, la competizione tra clienti-modello che gareggiano per vincere il prodotto migliore è una tesi che convince solo parzialmente. La competizione, dal punto di vista psicologico e clinico, è mossa dalla dinamica neoemozionale1 del possesso inteso, prendendo a prestito le parole di Carli (2003), “come uno specifico orientamento che si assume verso la realtà quando non è possibile il riconoscimento dell’altro quale estraneo”. Si compete per possedere qualcosa e, principalmente, a scapito di qualcun altro. Si compete e si pretende quando non c’è possibilità di pensare alle estraneità che abitano i contesti, quando il mondo-ambiente si sottrae al suo riconoscimento relazionale. In questo senso, il possesso è un

esercizio di potere dell’uno sull’altro che s’instaura nei luoghi non definiti dalla relazione. Cioè in quelle dimensioni in cui la relazione è imbrigliata dentro copioni emozionali stereotipati, come accade nelle culture organizzative di tipo familistico, oppure all’opposto, ed è il caso degli outlet, nelle organizzazioni disidentitarie (Ferraro, Lo Verso, 2007) in cui le relazioni sono talmente disperse, rarefatte e prive di senso che non è possibile fare appello ad alcun riferimento emozionale per connotarle, per cui l’unica soluzione ravvisabile è quella di applicare adesivamente gli stereotipi interni alle situazioni ignote. In entrambi i casi è negato il riconoscimento del contesto2.

Per rendere intelligibile questa dinamica, può essere utile richiamare alla mente la teoria piagetiana della costruzione delle immagini (Piaget, 1971). Lo studioso sottolinea che per percepire una forma in modo integrato è necessaria una giusta oscillazione tra avvicinamento e distanziamento dallo stimolo: sia avvicinandosi troppo (organizzazione familistica) che allontanandosi eccessivamente (organizzazione disidentitaria) la percezione degli oggetti contenuti nel campo visivo è compromessa. Parafrasando in termini clinici questa nozione costruttivista, potremmo dire che è indispensabile frapporre una giusta distanza emotiva tra sé e l’altro, tale da consentire il riconoscimento dell’estraneità e, allo stesso tempo, del proprio essere in relazione con l’altro. Inoltre, una distanza ottimale renderebbe gli individui consapevoli della maniera in cui si dispongono3 dentro la relazione, del modo in cui, cioè, i processi fantasmatici entrano nella dinamica interpersonale, nel tentativo di evitare la giustapposizione tra la realtà interna e realtà esterna, la quale il più delle volte conduce a schiacciare l’estraneità.

Laddove, infatti, non può essere tollerata la frustrazione dell’ignoto e lo sgomento alimentato dal divenire, dal caso, dalle mutazioni, le relazioni sociali vengono cortocircuitate dall’agito emozionale che interviene come se non vi fosse un contesto, come se le interazioni fossero regolate esclusivamente dall’evacuazione emozionale, prescindendo dall’ambiente relazionale che le contiene. Questo è quello che, in modo esemplificativo, succederebbe in un outlet che, in base a queste caratteristiche, può entrare nel novero dei luoghi artificiali studiati da Marc Augè (1993).

Il multispaccio è, dunque, un nonluogo.

L’etnologo francese definisce il nonluogo come un luogo privo di senso umano, deindividualizzato perché non radicato nella storia relazionale di un territorio. Il nonluogo non ha memoria, non custodisce sedimentazioni antropologiche, non c’è quella intimità corporea misurabile nelle piazze e nei corsi brulicanti di saluti e di gestualità familiari (Augè, 2008). Le arie dei nonluoghi sono costruite per un fine ben specifico (solitamente di trasporto, transito, commercio, tempo libero e svago) puntiforme e presentificato. Sono spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione. I nonluoghi sono il prodotto spazializzato di una società incapace di integrare in sé, nel proprio corpo topografico ed antropologico, i luoghi storici, confinandoli e banalizzandoli in posizioni periferiche e circoscritte alla stregua di “curiosità”, “oggetti d’intrattenimento” nel palcoscenico della realtà.

Ma come si giunge alla fabbricazione di contesti siffatti? Cosa spinge l’uomo a produrre forme sociali di questo genere?

Nel tentare di rispondere a tali quesiti, è opportuno fare un passo indietro e muoversi lungo coordinate epistemologiche capaci delineare ipotetici percorsi conoscitivi.

Il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente, l’insistere umano sul mondo seguendo specifici criteri, che mutano nel tempo e nello spazio, e contemporaneamente l’influenza che l’ambiente culturalmente determinato esercita sulla mente sono riflessi di una disposizione aperturistica radicalmente umana (Napolitani, 2006). L’uomo è il suo aprirsi al mondo. Ciò significa che per la sua sopravvivenza fisica e psichica, l’essere umano deve produrre il mondo a sua misura; deve ad esso correlarsi ed allearsi per regolare la sua manchevolezza, la sua mutabilità e provvisorietà. Egli non si dà nel modo ma si fa con e nel mondo. Simultaneamente, l’individuo contiene, nel suo spazio interno, il proprio ambiente: l’essere umano, in sostanza, sembrerebbe fondato costituzionalmente dall’ambiente che lo concepisce ed aprendosi al mondo concepisce a sua volta l’ambiente che lo ha generato in un movimento di simultanea circolarità, innescato dalla solidarietà biologico-culturale tra l’uomo e il suo contesto. L’esperienza umana è necessariamente relativa al luogo in cui si dispiega. Tale prospettiva antropologica, o meglio antropo-analitica (Binswanger, 1973), ci spinge, ogniqualvolta ragioniamo sull’essere umano e sui fatti sociali, a rimarcare l’imprescindibilità di uno spazio-tempo vissuto.

In questa direzione, fare riferimento all’ambiente come matrice dello psichico equivale ad indicare non semplicemente il contenitore ecologico, ma il campo di fenomeni relazionali che gruppi di persone attivano proprio in quello spazio, esattamente lì dove vi è una specifica morfologia territoriale, una caratteristica storia di coabitazione tra uomo e struttura, dove si è sedimentata una peculiare storia di convivenza tra individui, gruppi e organizzazioni.

In un precedente lavoro (Giorgi, Giunta, Coppola, Lo Verso 2009) abbiamo definito il topos come l’unità di misura simbolica del rapporto uomo-mondo. I topoi sono al contempo i territori reali, assunti nelle specifiche denotazioni morfologiche, e luoghi mentali, convergenze di dinamismi psichici, storici e antropologici che contengono significati e accadimenti transpersonali (Lo Verso, 1994). Nei topoi si incontrano e si saldano influenze simboliche e mitologiche, fatti storici e connotazioni fattuali del territorio.

Di conseguenza osservare spazi come gli outlet, i centri commerciali, gli aeroporti consente una riflessione, attuale, sulla psiche relazionale nelle sue manifestazioni topografiche. La psiche umana abitando il mondo, marcandolo di artefatti culturali, consegna segni, tracce, indizi su di sé e lascia intravedere il modo in cui la convivenza uomo-mondo cambia nel tempo.

Oggetto di studio della psicologia, orientata gruppoanaliticamente, è la mente che abita il mondo, dopo esserne stata abitata originariamente, e continuando sempre ad essere creata e ricreata, declinata e modulata dal contesto che essa abita. Si viene a configurare, così, un movimento relazionale che, in una progressione centrifuga, avvita un dispiegamento rizomatico di tutti i fenomeni interni ed esterni presenti in quel dominio di senso. Come spiega Morin (2007), il rizoma è un particolare tipo di radice che ha la specificità di penetrare il terreno lungo un movimento di estensione orizzontale districandosi reticolarmante piuttosto che penetrare i campo (mentale e relazionale) in modo circoscritto e unidirezionale. Il movimento relazionale che dà origine al topos disegna un diagramma di dinamismi psichici che si oppone all’archeologia freudiana e propone una molteplicità estensibile di flussi relazionali complessi, radicati nella storia e aperti nel tempo.

In questa cornice, il topos va interpretato come un fenomeno emergente che si organizza a partire da tale movimento di creazione, il cui unico limite è dato all’incontro tra i vincoli e le possibilità presenti in quel contesto.

Se la rappresentazione mentale e topologica di un territorio è frutto di congiunzioni storiche, di intersezioni tra micro e macro-cultura, tra i sistemi sociali che si sono avvicendati nel tempo (Ceruti M., Lo Verso G., 1998), allora questo arcipelago di estensioni psichiche, antropologiche e contestuali non può che orientare la strutturazione identitaria di coloro che condividono uno stesso contesto. Chiaramente, l’identità è di per se irriducibilmente connessa alla specifica esperienza di mondo che l’individuo compie ma tale mondo è annodato su un reticolo di temi culturali e significazioni collettive che intervengono nella fondazione e nel dispiegamento dell’esistenza.

Tutto questo spinge ad intrecciare il costrutto del topos a quello dell’identità con l’obiettivo di costruire un modello interpretativo sui nuovi processi adattivi, stili difensivi, modi relazionali che articolano le dimensioni identitarie nell’epoca post-moderna.

Riflessioni conclusive

La gente transita costantemente nei nonluoghi ma nessuno li abita. Abitare (dal latino habitare interiezione di habere) significa continuare ad avere, tenere, implica perciò elementi di costanza e permanenza esistenziale, quella stessa permanenza che la mente deve percepire per sentirsi esistere, per storicizzarsi, conferendo sostanza all’esperienza del mondo. In altri termini, aver abitudine dei propri luoghi interni ed esterni è a fondamento dell’identità personale. La de-localizzazione che propongono contenitori del mondo occidentale è espressione di una specifica interiorizzazione dello spazio ed esternalizzazione di contenuti interni, in cui sembra esserci una dis-abituazione all’ambiente antropologico.

Oggi, siamo dinanzi a spazi sradicati, disincagliati dal contesto, dalle risorse e dalle possibilità che esso offre. Si pensi, ad esempio, a coloro che in un sabato pomeriggio d’inizio estate si muovono in massa verso le città marcato, gli outlet, i centri commerciali, pur vivendo in una località incorniciata da km e km di costa balneare. Un tempo, l’uomo viveva profondamente in simbiosi1 con il proprio ambiente, lo stile di vita era regolato dall’alternarsi delle stagioni, gli svaghi gli impegni si flettevano verso il mondo e venivano adattati agli aspetti contingenti ed emergenti dal contesto. Appare superfluo ribadire che non si vuole rievocare nostalgicamente una rappresentazione bucolica dell’uomo che contempla passivamente il mondo, inerte dinanzi a messianiche attese. Ciò a cui si vuole fare riferimento è il bisogno di una riconciliazione tra l’uomo e il mondo in cui abita, perché da questo consegue la disponibilità ad integrare bisogni e desideri degli individui con le risorse del contesto.

È proprio questo riconoscimento l’aspetto psicologicamente più rilevante, riconoscimento che oggi sembra non avere cittadinanza nella vita quotidiana.

Da questo punto di vista, la mancanza di riconoscimento tra uomo e mondo contribuisce a generare identità effimere, fragili, e specularmene produce luoghi disidentitari, desertificati, relazionalmente depauperati. La nominazione del contesto, cioè l’attribuzione di senso a quel contesto, ne sancisce l’esistenza: una cosa ha senso se è condivisa altrimenti resta priva di spessore simbolico. Minore sarà la connotazione del contesto maggiore sarà confusione emozionale. Senza spazi condivisi, capaci di rievocare la storia di altre condivisioni precedenti la nostra esistenza, rischiamo di creare città senza tempo, tempi senza storia e mondi senza alterità.

NOTE:

1 Le neoemozioni sono modalità di rapporto volte a perseguire il possesso dell’altro o l’essere oggetto del possesso. Esse rappresentano un organizzatore della fantasia di possesso, dispongono la dinamica affettiva in termini familistici, sono acontestuali, presiedono il passaggio da un contesto all’altro, rappresentano il tentativo di superamento del vuoto a cui la fantasia del possesso condanna.

 

2 E potremmo dire che ad essere negata è la realtà, se per reale intendiamo un accordo intersoggettivo rispetto alle cose mondo. Il contesto può essere visto se c’è un esser-ci a vederlo, un essere con l’altro che stabilisce la veridicità del reale.

3 Disporsi significa per noi darsi nello spazio contestuale-relazionale, in senso topoico, dove lo spazio dell’incontro è interno ed esterno e risulta in parte determinato dagli spazi storico-simbolici abitati in passato, durante la propria vita, attraverso le vite degli altri significativi e prima della vita stessa.

Bibliografia

Augé M. (1993);Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della submodernità. Elèuthera.

Augé, M. (2009) Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al non tempo. Elèuthera.

Bauman Z. (2008); Consumo, dunque sono. Laterza

Binswanger L. (1973) Il caso Ellen West e altri saggi, trad. di Carlo Mainoldi, Bompiani, Milano.

Ceruti M., Lo Verso G. (1998), Epistemologia e psicoterapia. Complessità e frontiere contemporanee. Raffaello Cortina.

Ferraro A. M., Lo Verso G. (2007) Disidentità e dintorni. Reti smagliate e destino della soggettualità oggi. Franco Angeli

Giorgi A. Giunta S., Coppola E.& Lo Verso G. (2009). Territori in controluce. Ricerche psicologiche

sul fenomeno mafioso. Milano: Franco Angeli.

Lo Verso (1994). Le relazioni soggettuali. Torino: Bollati Boringheri.

Morin E., Pasqualini C. (2007). Io, Edgar Morin. Una storia di vita. Franco Angeli

Napolitani D. (2006). Individualità e gruppalità. Bossura.

Piaget J. (1971). Psicologia ed epistemologia: per una teoria della conoscenza, Loescher, Torino.